· di Federica Calzolari ·
È
il modo più appropriato chiamarli vini naturali? Meglio vini secondo natura? Vini veri? O è più adatto definirli tradizionali? Vini biologici? Vini biodinamici? Oppure vini liberi, prendendo in prestito un termine recentemente introdotto da Oscar Farinetti?
La giungla dei termini che cercano di descrivere una produzione che esclude tutte le sostanze chimiche di sintesi (concimi, pesticidi, diserbanti) in vigna, tratta solo con rame e zolfo e in cantina vinifica attraverso fermentazioni spontanee è piuttosto intricata.
Non sto ad addentrarmi tra i significati da attribuire ai vari metodi di produzione (biologico non è sinonimo di biodinamico; non tutti i vini naturali sono prodotti secondo la filosofia steineriana; vino libero è anche legato ad una battaglia dei piccoli produttori contro la burocrazia; esistono anche i SAINS, Sans Aucun Intrant Ni Sulfite, ecc. ecc.), ma su questo spinoso dibattito vorrei far conoscere il punto di vista di alcuni dei vigneron presenti a “Vini di Vignaioli 2019”, rassegna svoltasi a Fornovo lo scorso 3 novembre.
La questione
è stata proposta puntualmente ad ogni produttore interpellato con queste domanda:” Che cosa significa vino naturale per lei? Alcuni rifiutano questo appellativo: chi afferma che il vino vada prodotto solo in questo modo (è vino e non c’è bisogno di aggiungere l’aggettivo naturale), chi sostiene che la parola “naturale” circoscriva una tipologia e la rinchiuda in una nicchia accessibile a pochi. “
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“Il vino naturale in sé per sé non esiste: la natura non ha creato l’uva per fare vino, ma per dare semi che garantiscano la riproduzione e uva che sia cibo per uccelli o altri animali. Poi l’uomo ha capito che con il suo intervento poteva farne vino, per cui secondo me la definizione giusta è vino artigianale, perché per ottenere un vino autentico, che sia specchio dell’uva, il contadino in vigna deve prestare grande attenzione alla materia prima.
Dall’altra parte
c’è il vino industriale, per avere il quale l’enologo corregge in cantina la natura o gli errori nella vinificazione.” dichiara Andrea Marcesini de “La Felce“ di La Spezia, mentre tra i suoi ben noti vini mi propone un inedito ed emozionante passito, il Non sempre 139 rosso. “L’industria si prefigge uno stile di vino che deve piacere. I vini artigianali non devono piacere, ma parlare del territorio, dell’uva e dell’uomo che li ha creati. Sono identificativi, sono unici…”
“A mio parere il vino naturale è il vino della tradizione. Io produco un Nero d’Avola tradizionale con un moderato contatto dell’uva col mosto che fermenta (24-36 ore) in vasche aperte di cemento, senza aggiunta di lieviti e con tre rimontaggi in tutto. Il risultato è un vino molto profumato, con meno colore del Nero d’Avola che noi conosciamo, ma che ha un sentore di naturalità: è il vino come si faceva una volta.
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Oggi il Nero d’Avola
è un vino industriale, pesante, ricco di tannino, risultato di una vinificazione che lo ha completamente snaturato.” afferma Giovanni Sallemi, titolare dell’Azienda agricola omonima, situata tra Caltagirone e Granieri.
Il Terre di Conventazzo 2015 (3 anni in acciaio) e il Sabbie rosse (3 anni in botte grande di rovere) sono due Nero d’Avola snelli, ma di struttura e di notevole godibilità.
1701 Franciacorta: “Il nostro è un vino biodinamico… e artigianale. Cerchiamo di operare determinate lavorazioni in campagna seguendo il calendario e di vinificare senza additivi e coadiuvanti. Siamo anche molto al di sotto dei limiti di legge come dosi di solforosa…”.
Assaggio il Sullerba, base Chardonnay 2017, vinificato in acciaio e anfore di terracotta con lieviti indigeni e rifermato in bottiglia grazie ad un tiraggio a primavera con mosto congelato delle stesse uve, poi un brut nature vendemmia 2014 affinato 36 mesi sui lieviti ed il potente Rosè, 100% Pinot Nero 2016, maturato per 30 mesi. Impeccabili tutti e tre.
Siamo di fronte
a viticoltori biodinamici con la certificazione Demeter, e quindi anche biologici, ma potremmo chiamarli naturali: non c’è aggiunta di liqueur de tirage né di liqueur de expèdition; tutt’al più viene effettuata una prolungata macerazione…
“Naturale è il modo per descrivere un vino ottenuto con pochi interventi. Trovamene un altro… Artigianale? Va bene! Però si fa tanto parlare di vino, ma è solo l’ultima parte del processo: tutto risiede nella vigna! La qualità dell’uva la devi costruire con la biodiversità.
Devi avere la natura attorno, perché se hai solo il vigneto in monocultura, entra in gioco la chimica! Bosco, seminativo, siepi e anche il vigneto. E l’uomo deve accompagnare la natura nei modi che più la agevolino e nei tempi dettati dalle annate.
Se lavori bene nel vigneto, avrai dei vini strepitosi!” mi risponde Il Castello di Stefanago, azienda biologica dell’Oltrepò pavese, mentre mi sciorina uno dopo l’altro dei magnifici Metodo classico da Pinot Nero e blanc de blancs.
La fermentazione spontanea
si blocca con i primi freddi e lascia un residuo zuccherino, poi il sopraggiungere della primavera provoca il risveglio dei lieviti che piano piano riprendono la loro azione e fanno partire la seconda fermentazione in bottiglia.
Il rabbocco avviene con lo stesso vino. E anche i Rifermentati denotano pulizia e personalità. “Sicuramente non avrai prodotti appiattiti, uniformi e standardizzati: una vendemmia non è mai uguale all’altra!”
Elena Pantaleoni dell’azienda piacentina La Stoppa la vede così: “L’aggettivo “naturale” non mi piace. Diciamo che il vino è stato fatto come lo produciamo noi da almeno 5000 anni; solo negli ultimi 50 anni, 60 a seconda dei luoghi, l’enologia moderna, nata per correggere i difetti del vino con l’uso di additivi, ha rivoluzionato tutto.
Da trent’anni personalmente, e da più di quaranta i miei genitori, produciamo vino in questo modo; l’altro è vino industriale, che ha davvero poco a che vedere con “il vino”. Possiamo anche discutere sulle definizioni, ma non dimentichiamoci che non siamo l’avanguardia. Negli anni ’70, quando ho ereditato La Stoppa, e nell’80, quando è entrato in azienda Giulio Armani, il vino si faceva così: non aveva certificazione biologica, però si usavano rame e zolfo in vigna, pochi solfiti, fermentazioni spontanee con i lieviti dell’uva e della cantina.
Con un approccio artigiano,
che ha sempre cercato di capire le potenzialità del territorio e di mantenere nel vino l’identità che gli danno il terroir, l’annata e il vitigno. Poi c’è chi parte da un modello di vino precostituito, che si può fare in qualsiasi parte d’Italia, sempre uguale a sé stesso ogni anno, perché per legge è consentito usare tutta una serie di accorgimenti durante la vinificazione.
Lo fa perché ha un suo mercato, perché certe aziende hanno una loro dimensione e producono milioni di bottiglie. È rassicurante… Anche per il consumatore… Costui, però, se vuole essere emozionato, vuole fare delle scoperte, non può rivolgersi ad un vino industriale…
Per un vignaiolo artigiano il fatto che il vino sia diverso ogni anno è un punto di forza.” Mi colpisce l’aromatico passito “Vigna della volta”, un blend di uve Malvasia di Candia e di Moscato appassite al sole, pigiate con un torchio verticale e fermentate in barriques grazie ai lieviti naturali; matura dieci mesi sulle fecce fini. È filtrato e viene aggiunta un po’ di solforosa, avendo più di 100 g/l di zucchero. Un vino di grande personalità, dolce e avvolgente ma attraversato da una spiccata acidità.
Anche a Tamara,
moglie di Eugenio Rosi, viticoltore della Vallagarina (TN), chiamarli vini naturali non sembra adatto: è un termine generico e indefinito. Il marito da sempre si sente un artigiano: i suoi vini sono l’effetto di una personale interpretazione, di una ricerca alimentata dalle sensazioni.
Non è certo un vino standardizzato il Riflesso Rosi 2017 (Cabernet Sauvignon, Merlot, Marzemino), ultima invenzione di questo creativo vignaiolo, un rosso leggero di grande soddisfazione. Dopo una macerazione delle uve di due giorni, durante la fermentazione con lieviti autoctoni al mosto vengono aggiunte le vinacce dell’Anisos (Nosiola, Pinot Bianco, Chardonnay) che lì rimangono per 30-40 giorni per dare struttura e fissare il colore grazie ai tannini contenuti nei vinaccioli.
Fausto Ligabue, produttore in Alta Val Camonica, ammette: “Eh, intendersi sul naturale non è facile…”, poi aggiunge” Per me è prima di tutto coltivare la vigna in un certo modo; io credo che il massimo debba essere profuso in campagna. Se il contadino non ha la materia prima, sana e pulita, avrà un risultato un po’ zoppo. Io non falcio l’erba tra i filari, non “cimo” e lascio che la pianta si sviluppi: già l’ho costretta a star lì, quindi cerco di farla vivere il meglio possibile!
Poi uso propoli,
poltiglia bordolese e prodotti omeopatici per riuscire a ridurre il rame e lo zolfo che servono per combattere oidio e peronospora. E sì che non supero mai la media di 1kg di rame e kg 0,500 di zolfo all’anno, ma mi piacerebbe arrivare a zero! In cantina diraspo o pigio l’uva, che fermenta grazie ai propri lieviti a tino aperto, senza controllo della temperatura e senza ricorrere ad anidride solforosa in qualsiasi fase della vinificazione, sia per i rossi che per i bianchi. L’affinamento è in legno: barriques o tonneaux prima di imbottigliare. Assecondare la natura senza violentarla, questo è il mio proposito.”
I vini in assaggio, tra cui Cornalin, Fumin e Ciliegiolo e il bianco Petite Arvine, pur nella loro imperfezione tecnica, rivelano tutti la filosofia un po’ estrema del produttore e il territorio montano da cui provengono.
Mi sposto allo stand dell’Azienda Agricola Fortunato Bressanelli, altro produttore della Val Camonica. Lui coltiva Barbera, Cabernet Sauvignon e Merlot con gli stessi metodi di Fausto Ligabue. Considera naturali i suoi vini perché non subiscono manipolazioni e non contengono solfiti. “Sono vini come viene viene. Ogni annata ha la sua storia… Il mio lo chiamo il metodo Montessori, perché mi limito a dare l’input (la vendemmia), poi il vino deve crearsi da solo. Se posso, neanche un travaso faccio!”.
Eccomi di nuovo in Oltrepò,
dove incontro Gianluca Cabrini della Tenuta Belvedere: “Io come definizione preferisco vino rispettoso, da parte di chi lo fa, e poi lo deve vendere, e anche di chi lo deve consumare. Se è netta la distinzione tra industriale e artigianale, esistono delle sottocategorie di vino artigianale.
Per esempio, c’è chi condanna l’uso della temperatura in cantina; noi la utilizziamo! Però essenziale è il concetto di vignaiolo indipendente custode della propria vigna, sentinella del proprio territorio. Trattamenti omeopatici, concimi organici di tipo biologico, inerbimento spontaneo tra i filari e in cantina minimo uso di solfiti e fermentazione con lieviti indigeni.
Questo è rispetto per me!” Anche qui c’è la linea di metodi classici e di rifermentati, gli uni sboccati, gli altri con i lieviti in sospensione, dalla beva ora potente e vigorosa, ora disinvolta e dissetante.
L’azienda imperiese Rosmarinus
sposa i dettami dell’agricoltura biodinamica per produrre i suoi due Rossese di Dolceacqua Doc sinceri e succosi.
“Il vignaiolo artigianale riconosce i progressi dell’enologia?” chiedo a Silvia dell’azienda veneta Il Roccolo di Monticelli.
“A livello di conoscenza del processo di trasformazione dell’uva in vino sì, ma non ne condivide l’uso di trattamenti e correttivi; è bene agire in prevenzione con una conduzione agronomica accurata e attenta all’ambiente.” mi risponde “Comunque anche tra i viticoltori “naturali” c’è chi pratica interventi sul controllo della temperatura o chi usa il pied de cuve.
Secondo me questa tecnica condiziona la fermentazione alcolica naturale, modifica uno status quo, anche se è uno starter che proviene da lieviti indigeni… Sono entrambe “cautele” non necessarie.” E mi fa assaggiare il Monticelli bianco 2018 (Garganega e Trebbiano), tre mesi in acciaio a contatto con le bucce e lì affinato. Imbottigliato senza alcun trattamento e filtrazione. È la Garganega macerata della tradizione veneta.
Replica a questa obiezione
Roberto Porciello, titolare della cantina Cascina Boccaccio in Alto Monferrato:” Il piede di fermentazione sarebbe una manipolazione? Perché? Uso le mie uve… Se un produttore ha uve che concentrano tantissimo zucchero, come a volta capita anche a me, i lieviti selvaggi che sono sulle bucce o in cantina in presenza di molto alcool muoiono, allora si rischia di avere un vino dal residuo zuccherino.
È chiaro che bisogna prevenire vendemmiando le uve mature e non surmature, però se c’è tanto alcool complessivo da svolgere si fa un pied de cuve…
Riguardo al naturale dipende… Se guardiamo all’aspetto della lavorazione, certamente non esiste un vino così. Ma se riflettiamo sul significato intrinseco, è sì un vino creato dall’uomo a livello agricolo, però nel rispetto di canoni diversi dai quello convenzionale.
Comunque io detesto le etichette e mi piace partecipare a fiere di ogni tipo, altrimenti ci si rinchiude in un recinto e “te la canti e te la suoni”. Se vuoi diffondere l’autenticità del tuo vino e la sua territorialità, devi farlo assaggiare senza mettere le mani avanti dicendo che è un vino naturale. I miei sono vini senza solfiti, fermentati spontaneamente, non chiarificati e non filtrati; se piacciono e qualcuno li vuole comprare, allora aggiungo che sono fatti in maniera artigiana!”
E quanto mi piace
il suo ancestrale “Infernot”, un cortese dissetante e beverino, che già dal brillante colore giallo limone ti invoglia all’assaggio!
Foradori di Trento mi propone la Nosiola 2012, il Pinot Grigio “Fuoripista” 2018 (8 mesi a contatto con le bucce in grandi anfore di terracotta entrambi) e iI Manzoni Bianco ‘”Fontanasanta” 2018 (macerato per 7 giorni sulle bucce). Vini intensi, fuori dagli schemi.
“L’anfora, panciuta o cilindrica, “mi racconta “è un contenitore che garantisce la giusta valorizzazione dell’uva, perché l’argilla tra gli elementi naturali è il più neutro. Non conferisce nulla. Di più: la lenta micro-ossigenazione fa sì che la macerazione dia al mosto tutti gli aromi e le proprietà dell’uva, riuscendo a caratterizzare il vino in maniera espressiva. In sostanza esercita una specie di azione di riverbero, nel bene e nel male.”
“Il vino naturale – sostiene “è la concezione a tutto tondo dell’agricoltura che rispetta la terra. I vini dovrebbero essere naturali! Non dovrebbe esistere il convenzionale, con la chimica… E bisogna battersi per coltivare i vitigni autoctoni. Noi cerchiamo di convincere gli agricoltori a non espiantare il Teroldego: ce l’abbiamo solo noi! E in soli tre paesi!
Ma non bisogna approcciarsi
in maniera imprudente alla vinificazione naturale… C’è chi sfrutta l’etichetta “vino naturale” per vendere un qualcosa che buono non è… Ci vuole tempo e la giusta esperienza per offrire un buon prodotto.” Come il Foradori 2018, assemblaggio di uve provenienti da piccole parcelle che fermenta in vasche di cemento e matura 12 mesi (6 in cemento e 6 in botti di rovere), teroldego nitido, caldo ed equilibrato.
O lo Sgarzon, cru di teroldego macerato in anfora 8 mesi e affinato qualche mese in cemento, vino di corpo dall’acidità scalpitante e dal tannino levigato.
Ma Angelo Muto, titolare della Cantina dell’Angelo in Tufo (AV), non vuol sentir parlare di vino naturale:” Il mio è un vino tradizionale, il vino del territorio”. Ha continuato a coltivare il vigneto, che insiste su antiche miniere di zolfo, come facevano il nonno e il padre, con particolare attenzione alla salute del terreno. Il dorato Greco di Tufo ‘Miniere’ 2017 che assaggio ha un deciso piglio minerale, note agrumate e tensione sapida da vendere; è un perfetto ambasciatore del proprio terroir.
Insomma,
è chiaro che le scuole di pensiero sono diverse… E che nel processo di vinificazione c’è chi è più estremo e chi meno.
Probabilmente l’espressione VINO ARTIGIANALE risulta la più appropriata a identificare il prodotto di un vignaiolo indipendente che usa pratiche virtuose, tanto più che NATURALE è un termine illecito, perché contiene in sé un’accezione positiva che tende a discriminare gli altri vini, ed è un errore semantico perché la natura non fa il vino.
Inoltre, a mio parere, la parola “naturale” non deve essere una sorta di scudo ideologico dietro cui nascondere puzze o derive acetiche, partendo dal presupposto che, essendo naturale, è logico ci siano difetti.
E quindi concludo:
probabilmente, visto il proliferarsi di associazioni, di manifesti e di protocolli riguardanti i vignaioli e i vini non convenzionali, è giunto il momento storico di dare una definizione giuridica di “vino naturale” o di “vino artigianale” con una certificazione di prodotto e di processo.
Penso che se ci fossero norme di riferimento come nel biologico, i vignaioli potrebbero accordarsi sui principi di naturalità e sui livelli qualitativi che una vinificazione non omologata debba rispettare, a tutto vantaggio del consumatore di oggi, sempre più consapevole dell’importanza del vivere bene e del bere sano.