Il futuro suona alla porta
Il futuro suona alla porta

Il futuro suona alla porta

L

a meraviglia di un e-commerce del vino è che ti porta a casa territori e luoghi che avresti voluto vedere, ma che per situazioni contingenti sei impossibilitato a visitare.

Quindi, dopo un iniziale moto di sorpresa, ho salutato con entusiasmo l’arrivo di un paio di PIWI che, sì, avrei voluto assaggiare sul posto, magari accanto al produttore, ma che intanto mi permettono di approcciare un mondo che mi incuriosisce non poco. Di ciò ringrazio chi mi ha fatto questo regalo inaspettato.

PIWI sta per pilzwiderstandfähige rebsorte, in tedesco vitigni resistenti ai funghi, e rappresenta la nuova frontiera della lotta all’oidio e alla peronospora, alternativa all’uso di fitofarmaci o di rame e zolfo nel migliore dei casi. Li chiamano ibridi interspecifici e c’è voluto un bel po’ di tempo prima che arrivassero a dare vini apprezzabili.

Un cenno alla storia…

Nei primi del ‘900, dopo il flagello fillosserico, il ricorso al portainnesto americano segna con successo la rinascita della viticoltura in Europa.

Quando però, soprattutto in Francia, la ricerca indaga sulla possibilità di incrociare la vitis vinifera europea con le viti americane (Vitis lincecumii, Vitis rupestris, Vitis labrusca,

Vitis riparia) per creare vitigni capaci di resistere alle crittogame e alla fillossera conservando le caratteristiche qualitative della specie “vinifera”, i risultati non sono così entusiasmanti, sia perché non era possibile coltivarli a piede franco sia perché non davano vini buoni.

Bisognava dunque tentare altri incroci e dal 1950, per decenni, molti istituti europei di viticoltura in Germania, Ungheria e Francia si impegnano in nuovi incroci su vitis vinifera, selezionando i vitigni più resistenti anche tra specie asiatiche (Vitis amurensis e altre).

Se ancora oggi tra i viticoltori c’è un po’ di diffidenza verso queste specie, figuriamoci nel secolo scorso, durante il quale l’uso dei fitofarmaci non era così diffusamente contrastato a livello etico e si poteva facilmente sanare un vigneto di vinifera con insetticidi e antiparassitari!

Si arriva quindi

ai primi anni 2000, quando il dibattito sugli Ogm risveglia l’interesse verso questi vitigni che non sono geneticamente modificati, ma il risultato di una selezione e del tradizionale metodo della fecondazione con impollinazione.

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È la provincia di Bolzano, per prima in Italia, a richiedere che il Bronner, vitigno a bacca bianca prodotto dall’Istituto Statale di Viticoltura di Friburgo, e il Regent, a bacca nera, messo a punto dal Centro di Geilweilherhof nel Palatinato, già inclusi nel registro varietale tedesco, vengano iscritti in quello italiano; ciò avviene nel 2009.

Nel 2013, con il sostegno della Fondazione Mach di San Michele all’Adige e della provincia di Trento, sono ulteriormente ammessi Cabernet Carbon, Cabernet Cortis, Prior, a bacca nera, ed Helios, Johanniter, Solaris, a bacca bianca.

Nel 2014 è la volta delle uve bianche Muscaris e Souvignier Gris, sempre su richiesta delle due province autonome, mentre nel 2015 vengono iscritti dieci ibridi creati in Italia dall’Università di Udine, la cui coltivazione oggi è autorizzata in Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Lombardia ed in una porzione di Piemonte.

Cinque sono a bacca bianca: Fleurtai, Soreli (da Friulano), Kretos, Nepis, Rytos (da Sauvignon) e cinque a bacca rossa: Eidos, Volos (da Cabernet), Khorus, Kanthus, Julius (da Merlot); ne sono stati impiantati quasi 500 ettari e danno risultati davvero soddisfacenti sul piano agronomico: 2-3 trattamenti contro i 15 all’anno della vitis vinifera.

Tuttavia la legislazione della U.E.

vieta la produzione di vini Doc e Docg con queste varietà e la autorizza solo da Vitis vinifera. La Germania, fortemente coinvolta nello studio e nell’impiego dei PIWI, sostiene che i resistenti contengono il 95% del DNA della vitis vinifera di origine, per cui devono essere considerati vitigni atti a produrre un vino di qualità ed inseriti nelle denominazioni.

L’Italia segue la normativa europea e permette il loro uso in uvaggio o in purezza solo per la produzione di vini comuni o di IGT, ma anche qui non mancano pressioni affinché si modifichino i disciplinari.

Ovviamente i PIWI sono caldeggiati principalmente in quelle zone fredde in cui il ristagno di umidità favorisce l’attacco di funghi e muffe, come Germania, Austria, Ungheria, Svizzera, Nordest italiano.

Anche perché, in un momento di forti cambiamenti climatici, vista la loro attitudine a sopportare con una certa disinvoltura le basse temperature e a giungere a maturazione con meno calore, permettono di spostare l’asticella della latitudine verso l’alto e aprono nuovi orizzonti alla viticoltura “nordica”.

Però la più alta valenza dei vitigni resistenti di nuova generazione, che molti oggi rifiutano di definire ibridi, è quella legata alla sostenibilità ambientale: niente uso di chimica in vigna, solo 2-3 trattamenti nelle annate peggiori, nessuno in quelle buone.

Niente uso del ”biologico” rame,

che è un metallo pesante e si accumula nel sottosuolo, naturalità del vino che ne deriva, unitamente al fatto che i viticoltori che sposano la causa sono spesso artefici di vini artigianali senza aggiunta di solfiti o di altri additivi.

Insomma… il futuro suona alla mia porta, che apro volentieri per accogliere un Johanniter ed un Solaris.

Il Johanniter è un’uva ottenuta tra un incrocio di Riesling e Seyve Villard 12481 e un incrocio di Pinot Grigio e Chasselas; è stata “creata” nell’Istituto di Friburgo nel 1968 da Johannes Zimmerman e chiamata così in suo onore.

Il Solaris è nata nel 1975 in Germania, nello stesso centro, ibridando Merzling (Seyve Villard 5.276 e Riesling+Pinot Gris) con la varietà GM6493 (Severa Zarya+Muscat Ottonel).

Segnalo questo non tanto per ricostruire virtualmente le caratteristiche organolettiche di tali vitigni rifacendoci al gusto del vino che si ricava dalla vitis originaria, quanto per testimoniare come siano il frutto di incroci multipli tra ibridi con specie di vitis vinifera, alla ricerca di un vitigno micoresistente con la qualità di una vite europea. 

Vigneti delle Dolomiti Johanniter IGT 2017 El Zeremia – 13%

Giallo paglierino tenue di grande luminosità. Al naso svela sentori di agrume, pietra focaia, erbe aromatiche e bosso. In bocca è equilibrato, ma di scalpitante sapidità, con ritorni citrini ed una scia di mandorla secca. Di buon corpo e dalla beva appagante. Abbastanza persistente. Matura in acciaio per 5 mesi e poi riposa in bottiglia. 

Vigneti delle Dolomiti “Solaris Cucol” IGT 2018 Kollerhof – 14.5%

Proviene da vigneti piantati a 1200 m s.l.m. Paglierino intenso e lucente, all’olfatto si apre con decise note vegetali di foglia di pomodoro, che fanno pensare ad un sauvignon, e poi virano verso sentori di tropicale acidulo, per integrarsi con un floreale citrino ed una speziatura aromatica.

Al palato ha volume, tensione gustativa e dinamicità: la sferzata fresco-sapida e minerale si allunga in progressione e rende il sorso teso, longilineo, molto elegante. Viene da dire: decisamente un vino delle Dolomiti! Sosta in acciaio per circa 8 mesi sulle proprie fecce fini.

Detto questo, sono consapevole di quanto scetticismo ci sia riguardo a queste varietà, dei tanti dubbi sulla loro possibilità di interpretare il territorio in cui sono impiantate, di come l’essere sconosciute non giovi al marketing…

Probabilmente sono soltanto vitigni nuovi, che, senza sostituirsi ai già affermati vitigni tradizionali, possono essere promotori di un cambiamento dai forti risvolti green e rappresentare una nouvelle vague del gusto. In sintesi… semplicemente futuro… Innovazione e futuro.

 

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